L'energia di domani si accumula a Torino
Quando premiamo l'interruttore della luce, ci aspettiamo che funzioni sempre. Ma cosa succede quando il sole tramonta e i pannelli solari smettono di produrre energia? O quando il vento si calma e le pale eoliche rallentano? La risposta a questa domanda apparentemente semplice nasconde una delle sfide più complesse della transizione energetica: come immagazzinare l'energia per quando ne abbiamo bisogno.
Al Politecnico di Torino, diversi gruppi di ricerca stanno affrontando questo problema da angolazioni complementari, ciascuno concentrato su una particolare forma di accumulo. Dal pompaggio dell’acqua nelle dighe per accumulare energia cinetica (di cui abbiamo parlato nella puntata di Orizzonti di giugno) alle batterie e agli elettrolizzatori che ricavano l’idrogeno dall’acqua, dal calore immagazzinato nel sottosuolo ai nanomateriali che potrebbero rivoluzionare le celle a combustibile. Il quadro che emerge è quello di un ecosistema scientifico vivace e a caccia di innovazioni sempre più spinte, per garantire la piena fattibilità della transizione energetica in corso verso le rinnovabili.
Al Politecnico di Torino studiamo soluzioni per l'accumulo termico con l'obiettivo di garantire un approvvigionamento più stabile, con meno sprechi, e che sfrutti al massimo il potenziale delle fonti rinnovabili.
- Martina Capone -
Martina Capone, ricercatrice
Martina Capone, ricercatrice
Ma cosa vuol dire immagazzinare energia dal punto di vista della fisica e della chimica? Massimo Santarelli, professore del Dipartimento Energia del Politecnico di Torino, dove insegna Sistemi energetici avanzati, la mette così: stoccare energia significa andare contro quanto avverrebbe spontaneamente. “Qualunque processo fisico ha una direzione privilegiata”, spiega. “In presenza di un campo gravitazionale, l'acqua scende naturalmente dal livello alto a quello basso; analogamente, una carica elettrica positiva si muove spontaneamente da un potenziale alto a uno basso. Questi sono fenomeni di trasporto legati alla presenza di gradienti di una funzione potenziale”. Stoccare energia può essere fatto in tanti modi, semplicemente invertendo fenomeni spontanei: sollevare l'acqua dal livello basso a quello alto, ricaricare una batteria portandola da uno stato di bassa energia (energia libera di Gibbs) a uno di alta energia, rompere la molecola d'acqua per produrre idrogeno.
Possiamo farlo sfruttando diversi tipi di gradienti di funzioni potenziali. Il gradiente gravitazionale è il più intuitivo ma anche il più debole: per questo motivo l'energia accumulata sollevando un peso è relativamente piccola. I gradienti chimici, che agiscono a livello degli orbitali elettronici di valenza degli atomi, permettono densità energetiche molto superiori. Se sfruttassimo a fini di accumulo processi nucleari, le densità energetiche raggiungerebbero ordini di grandezza ancora più elevati (ma a quel punto forse lo stoccaggio elettrico non sarebbe più una necessità …).
Ma c'è un problema fondamentale, una legge fisica inesorabile che governa tutti questi processi: il Secondo Principio della Termodinamica, e la sua grandezza principe, l'entropia. “A causa dei fenomeni entropici, ricaricare un sistema costa sempre più energia di quella che si ottiene scaricandolo”, spiega Santarelli. “Se dalla scarica ottengo 100 unità di energia, per ricaricare ne servono 120. Questo vale tanto per le batterie quanto per l'idrogeno ”. Rompere la molecola d'acqua per produrre idrogeno costa più energia di quanta se ne possa ottenere ricombinando idrogeno e ossigeno. Il delta energetico deve essere pagato da qualche fonte primaria: rinnovabile, nucleare o fossile.
L'obiettivo della ricerca è minimizzare questo costo, lavorando sia sulla termodinamica (come la temperatura e la pressione a cui vengono portati i materiali) sia sui meccanismi di trasporto. “Sono meccanismi di trasporto la cinetica di un catalizzatore, il trasferimento di carica o il trasferimento di un elettrone. C’è sempre un lavoro più o meno gravoso da fare: l’elettrone è piccolino e quindi si trasporta facilmente, mentre lo ione che è più grosso si trasporta più difficilmente”.
Ogni scelta comporta vantaggi e svantaggi, e l'ottimizzazione richiede di bilanciare fattori diversi che spesso puntano in direzioni opposte. Alla ricerca del massimo grado di efficienza.
La scommessa europea delle batterie
“Abbiamo vissuto per decenni su sistemi estremamente poco efficienti”, spiega Silvia Bodoardo, professoressa ordinaria del Dipartimento di Scienza applicata e tecnologia del Politecnico di Torino, dove coordina la task force sulle batterie e insegna Chimica applicata e tecnologia dei materiali. I combustibili fossili presentano rendimenti del 20-30%, mentre una batteria raggiunge efficienze superiori al 99,9% a livello di singola cella, che scendono all'85-90% a livello di veicolo. Questa differenza ha conseguenze enormi: per fare lo stesso lavoro serve meno energia di partenza, il che significa meno pannelli solari, meno pale eoliche, meno infrastrutture.
Ma l'efficienza è solo metà della storia. L'altra metà riguarda la sostenibilità delle materie prime. “Le batterie al piombo sono illuminanti sotto questo aspetto”, racconta Bodoardo. “Nonostante il piombo sia stato eliminato da quasi tutte le applicazioni per la sua tossicità, nelle batterie continua a essere utilizzato perché proviene interamente dal riciclo. Nessuno va più in miniera a estrarre piombo per fare batterie”. Questo esempio mostra come sia possibile creare cicli completamente chiusi, dove tutto ciò che è contenuto in una batteria rimane disponibile anche quando la batteria è esausta.
Nel 2017 la Commissione europea ha lanciato l'European Battery Alliance (EBA 250), un'iniziativa strategica per conquistare una fetta di un mercato stimato in 250 miliardi di euro l'anno. Non si tratta solo di costruire fabbriche per produrre batterie – le cosiddette gigafactory – ma di creare un intero ecosistema industriale: chi fornisce l'energia, chi produce i macchinari per assemblare le celle, chi sviluppa i materiali, chi si occupa del riciclo.
La dimensione del progetto richiede la formazione di circa 800.000 persone in Europa. “È l'equivalente dell'intera popolazione di Torino”, sottolinea Bodoardo. “E questo rappresenta uno dei principali colli di bottiglia del settore”.
Parallelamente sono nate due piattaforme di ricerca complementari. Battery 2030+ è un coordinamento che riunisce i maggiori centri di ricerca europei per sviluppare una batteria non focalizzata su una specifica tecnologia ma sul miglioramento sistemico delle prestazioni. Sono in gioco innovazioni quali sensori interni alle celle per monitorarne lo stato di salute, elettrodi capaci di auto-ripararsi, gemelli digitali che predicono il comportamento della batteria, accelerazione robotizzata della scoperta di nuovi materiali.
Batteries Europe opera invece a un livello tecnologico più maturo e si occupa di portare le tecnologie dal laboratorio alla fabbrica. Entrambe le piattaforme alimentano l'agenda strategica della BEPA (Battery Partnership), l'associazione che dialoga direttamente con la Commissione europea per definire le priorità di finanziamento. Il Politecnico di Torino, essendo tra i fondatori di Battery 2030 e membro attivo di tutte queste partnership, si trova in una posizione privilegiata per influenzare le scelte europee e accedere ai finanziamenti.
Al Politecnico, la ricerca copre l'intera catena del valore, dalla ricerca alla produzione. “Abbiamo una linea pilota condivisa con il gruppo di Fabrizio Pirri”, racconta Bodoardo. “Loro producono supercapacitori, noi celle per batterie. Siamo probabilmente l'unica università italiana con una linea pilota pienamente operativa”.
La ricerca spazia dai materiali più innovativi – batterie litio-zolfo e litio-ossigeno che promettono densità energetiche da 5 a 10 volte superiori a quelle attuali, anche se presentano ancora sfide tecnologiche significative – fino agli aspetti ingegneristici dell'assemblaggio dei pacchi batteria perché siano anche il meno pesanti possibile, “altrimenti l’energia se ne va per questo motivo e non per spostare persone o merci”.
Particolarmente interessante è il lavoro sulle batterie al potassio, sviluppato con Federico Bella, professore di Fondamenti chimici delle tecnologie al Politecnico di Torino, come alternativa al litio per applicazioni stazionarie. Il potassio è molto più abbondante del litio sulla crosta terrestre e costa meno, anche se offre una densità energetica inferiore. Per gli accumuli domestici o di quartiere, dove il peso e il volume sono meno critici che su un'auto, potrebbe rappresentare una soluzione più sostenibile ed economica.
Auto elettriche: autonomia reale e infrastrutture
Sul tema delle auto elettriche circolano molti luoghi comuni. Uno dei più persistenti riguarda l'autonomia: servono davvero 1.000 chilometri con una carica, come spesso si legge confrontando le auto europee con quelle cinesi? “Ma veramente servono 1.000 chilometri?”, risponde Bodoardo con pragmatismo. “Se parto da Torino, 1.000 chilometri vuol dire arrivare in Calabria. Ma una sosta in mezzo, no? L'infrastruttura di ricarica italiana conta già oltre 66.000 colonnine, una rete capillare che copre tutto il territorio nazionale”.
Una tecnologia emergente potrebbe cambiare le carte in tavola: il Vehicle-to-Grid (V2G), che permette di utilizzare l'energia immagazzinata nell'auto per altri usi domestici. “Il V2G non è ancora fattibile per tutti i veicoli, però cambia completamente il paradigma”, spiega Bodoardo. “Se ho caricato l'auto e so che nei giorni successivi non la userò, posso prendere e utilizzare l'energia lì dentro, per esempio per fare una lavatrice”. Non tutti i veicoli lo permettono ancora, ma la direzione è chiara.
La stragrande maggioranza dei produttori utilizza oggi celle litio-ferrofosfato. Il motivo è semplice: costano poco e sono molto sicure. Il litio-ferrofosfato lavora a 3,5 volt per cella, un voltaggio relativamente basso ma stabile. I veicoli premium invece puntano su chimiche ad alta tensione, che arrivano fino a 4,5 volt per cella, per massimizzare la densità energetica e quindi l'autonomia. Più alto il voltaggio, più alta la densità di energia complessiva.
Il progetto europeo GigaGreen, coordinato da Bodoardo, sta sviluppando celle sostenibili senza cobalto, un materiale critico, spesso estratto in condizioni eticamente problematiche. Il progetto utilizza catodi ad alta tensione a base di nichel e manganese e anodi al silicio ad altissima capacità per raggiungere prestazioni superiori mantenendo la sostenibilità ambientale.
“Tutto ciò che è contenuto in una batteria rimane disponibile anche quando la batteria è esausta”, sottolinea Bodoardo. “Il problema in Europa è che mancano industrie chimiche per processare questi materiali riciclati. Siamo costretti a rispedire tutto in Cina per la lavorazione, il che rappresenta una contraddizione non da poco che andrebbe superata”.
Celle a combustibile e scala dell'accumulo
Le celle a combustibile rappresentano una tecnologia fondamentale per convertire l'idrogeno in energia elettrica. A differenza delle batterie, prendono idrogeno e ossigeno dall'esterno e li fanno reagire per produrre elettricità, con acqua come unico prodotto di scarto. Il principio è relativamente semplice: l'idrogeno arriva all'anodo della cella, dove viene separato in protoni ed elettroni. Gli elettroni viaggiano attraverso un circuito esterno producendo corrente elettrica, mentre i protoni attraversano una membrana speciale che li conduce al catodo. Qui, protoni ed elettroni si ricombinano con l'ossigeno dell'aria per formare acqua.
Fuel Cell, @PhysicsMaterialsScienceandNano
Fuel Cell, @PhysicsMaterialsScienceandNano
“Le celle a combustibile sono sempre una cella elettrochimica, ma fanno una reazione di conversione tra idrogeno e ossigeno per ottenere acqua”, spiega Bodoardo. “Il problema più rilevante è che la velocità di questa reazione è molto lenta”. Per far funzionare bene questa reazione servono catalizzatori pregiati a base di platino o palladio, che aumentano significativamente i costi. Serve inoltre molta energia per rompere la molecola dell'acqua attraverso l'elettrolisi, e quando si ricombinano idrogeno e ossigeno nella cella a combustibile, l'energia recuperata è molto più bassa.
L'efficienza complessiva del ciclo completo è problematica: si perdono circa il 60% dell'energia iniziale (la cosiddetta roundtrip efficiency, come valore medio, si situa intorno al 40%). Per questo motivo, per la mobilità leggera le batterie rimangono superiori. Infatti il mercato dell'automotive sta andando decisamente nella direzione delle batterie. Le celle a combustibile trovano invece applicazioni in quel 20% di settori difficili da decarbonizzare: industrie siderurgiche, cementifici, aerei, navi di grandi dimensioni, eventualmente trasporti pesanti su gomma. In questi casi, dove la densità energetica è critica e le batterie diventerebbero troppo pesanti, l'idrogeno può essere una soluzione praticabile.
La scelta tra batterie e idrogeno non è quindi una questione di principio, ma di scala applicativa e vincoli pratici. “Per un appartamento, con carichi di qualche kilowatt, le batterie sono inequivocabilmente la scelta migliore”, aggiunge Santarelli. Salendo al livello di palazzo, ancora le batterie rappresentano la soluzione ottimale, semplicemente dimensionate in modo maggiore. Il punto di svolta arriva a livello di quartiere o borgo”. È a questo punto che diventa conveniente passare verso sistemi di stoccaggio chimico, che utilizzano sostanze come l'idrogeno invece di materiali pregiati intrappolati in celle elettrochimiche chiuse.
L'applicazione dell'idrogeno nei trasporti segue una logica di scala simile a quella dello stoccaggio. Per motorini e auto, le batterie rimangono superiori per efficienza, semplicità e disponibilità di infrastrutture. Per navi di grandi dimensioni e aerei, nemmeno l'idrogeno diretto è sufficiente a causa della sua bassa densità energetica: servono gli e-fuels. Combinando idrogeno elettrolitico con CO2 si ottiene per esempio metanolo, combinandolo con azoto si produce ammoniaca. Quest'ultima è considerata particolarmente promettente per la navigazione, nonostante i problemi di tossicità che richiedono precauzioni specifiche. “L'ammoniaca è il combustibile più interessante per le navi, seppur con limiti di tossicità”, conferma Santarelli.
La ricerca d’avanguardia sull’idrogeno
L'idrogeno ha un tallone d'Achille: la sua densità energetica è bassissima. Essendo l'elemento più leggero dell'universo, richiede soluzioni sofisticate per l'accumulo. I metodi fisici includono la compressione a 700 bar – una pressione altissima che richiede serbatoi resistenti e pesanti – o la liquefazione a -250°C (21 Kelvin), che aumenta significativamente la densità rispetto al gas compresso, ma richiede energia per il processo di liquefazione e presenta problemi di evaporazione continua. “Costa tanto liquefarlo e ha la sgradevole tendenza di voler tornare gas, quindi appena riceve un po' di calore evapora”, spiega Santarelli.
I metodi chimici offrono alternative interessanti ma complesse. Gli idruri metallici e i MOF (Metal-Organic Frameworks) funzionano come librerie molecolari dove gli atomi di idrogeno vengono intrappolati in spazi confinati, raggiungendo densità superiori a quelle del liquido libero. “È come una libreria”, spiega Santarelli. “Più piccoli sono i vani, più oggetti molto piccoli posso mettere. L'atomo di idrogeno è molto piccolo, quindi in questa libreria sono forzati a essere più vicini di quando sono da soli in fase liquida”. Il problema è che queste strutture sono tipicamente molto pesanti e quindi poco si adattano ad applicazioni di mobilità (bene invece per applicazioni stazionarie).
Stoccaggio di idrogeno in un MOF: le molecole di idrogeno (rosse) vengono assorbite da un materiale vettore (blu) (grz-technologies.com)
La ricerca più avanzata del gruppo di Santarelli si concentra sulla sintesi elettrochimica diretta, un approccio rivoluzionario che elimina passaggi intermedi. “Invece di produrre prima idrogeno e poi combinarlo chimicamente con CO2, utilizziamo celle elettrochimiche che da acqua, CO2 ed elettricità producono direttamente metanolo o etilene”, spiega.
L'evoluzione ultima di questa ricerca sarebbe la fotosintesi artificiale: sistemi che realizzano gli stessi processi non alimentati da elettricità ma direttamente da fotoni, mimando e superando i processi naturali delle piante. Federico Bella sta lavorando su una sfida parallela altrettanto ambiziosa: la sintesi elettrochimica diretta dell'ammoniaca da acqua e azoto, un processo che se realizzato con successo rappresenterebbe una rivoluzione per l'industria chimica, che attualmente produce ammoniaca attraverso il processo Haber-Bosch, estremamente energivoro.
Accumulo termico, l’energia che resta
Nel panorama dell’accumulo energetico, il calore si candida a giocare un ruolo importante. All’interno del partenariato esteso NEST del PNRR, dedicato all’energia sostenibile, la ricerca del Politecnico coordina una delle aree più promettenti: l’accumulo termico. “L’obiettivo non è solo conservare energia, ma rendere più efficiente e flessibile l’intero sistema di riscaldamento urbano”, spiega Vittorio Verda, professore del Dipartimento Energia del Politecnico di Torino e coordinatore delle attività sul tema.
L’accumulo termico si articola in tre principali tecnologie: sensibile, latente e termochimico, ciascuna con tempi e applicazioni diverse.
La forma più tradizionale, l’accumulo sensibile, sfrutta il riscaldamento o raffreddamento di materiali – spesso acqua – per compensare i picchi di domanda. È il caso del teleriscaldamento di Torino, dove grandi serbatoi cilindrici immagazzinano acqua calda di notte per restituirla durante il giorno. I tre imponenti contenitori accanto al Politecnico sono il simbolo tangibile di questa tecnologia già matura.
L’accumulo latente, invece, utilizza il calore legato ai cambi di fase dei materiali. Ghiaccio e materiali innovativi a 50-60°C permettono di creare sistemi compatti e altamente efficienti, spesso combinati con pompe di calore. È il cuore del progetto europeo Thumbs Up, che coinvolge il Politecnico e l’azienda torinese i-TES per integrare direttamente questi sistemi nelle reti di teleriscaldamento.
La frontiera più avanzata è quella dell’accumulo termochimico, basato su reazioni reversibili che assorbono o rilasciano calore, come nel ciclo del carbonato e dell’ossido di calcio. È una tecnologia potenzialmente capace di stoccare calore su scala stagionale, ma con limiti ancora da superare: “La densità energetica reale è molto più bassa di quella teorica, e questo comporta costi elevati per quantità di energia non ancora significative”.
Uno degli sviluppi più promettenti è l’accumulo nella falda acquifera superficiale, in collaborazione con Iren. L’impianto sperimentale torinese utilizza acqua a circa 22 °C, sfruttando la capacità termica del sottosuolo per conservare calore da una stagione all’altra.
Ma il vero obiettivo, sottolinea Verda, va oltre l’efficienza: “Non puntiamo tanto al risparmio energetico in sé, quanto ad aumentare la penetrazione delle fonti rinnovabili. Solare termico e geotermia possono dare un contributo enorme alla decarbonizzazione, soprattutto nell’area torinese”. Con soluzioni capaci di integrarsi nelle reti urbane e funzionare su orizzonti stagionali, l’accumulo termico emerge come una tecnologia chiave per la transizione energetica, complementare a batterie e idrogeno.
https://fondazionenest.it/
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https://www.thumbsupstorage.eu/
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Nanomateriali: catalizzatori e membrane sostenibili
Marzia Quaglio, professoressa associata del Dipartimento di Scienza applicata e tecnologia del Politecnico di Torino, dove insegna Fisica tecnica, e Sergio Bocchini, ricercatore dello stesso Dipartimento e affiliato alla linea “Materiali Sostenibili per il Futuro” dell’Istituto italiano di tecnologia, portano la prospettiva dei nanomateriali applicati ai sistemi di conversione energetica. Il loro lavoro si concentra sugli elettrolizzatori e sulle fuel cell.
“Il focus principale riguarda lo sviluppo di catalizzatori alternativi che possano sostituire i materiali tradizionalmente impiegati", spiega Quaglio. "Platino e terre rare sono costosi e presentano problematiche di sostenibilità. I nanomateriali carboniosi rappresentano la frontiera più promettente”.
Una delle innovazioni più significative è il laser-induced graphene, che permette di realizzare elettrodi flessibili per fuel cell. “Le scritture laser ci danno la possibilità di diversificare le proprietà elettriche, catalitiche e meccaniche già in fase di progettazione", continua Quaglio. “Questo apre la strada per celle con forme non convenzionali”.
Il contributo di Bocchini si focalizza soprattutto sui polimeri intrinsecamente microporosi. Questi materiali hanno rivoluzionato la separazione dei gas. “Immaginate di riempire un contenitore con della pasta”, spiega Bocchini. “Tra un pezzo e l’altro degli spazi vuoti: è lì che i gas possono entrare e venire separati in base alle loro dimensioni”.
L'applicazione più promettente riguarda le membrane per elettrolizzatori e fuel cell. I polimeri microporosi permettono agli ioni di muoversi a velocità molto superiori rispetto alle membrane tradizionali, riducendo le resistenze interne. Questo sviluppo ha anche un impatto ambientale significativo. Le membrane attuali contengono PFAS, sostanze problematiche in tutte le fasi del ciclo di vita. “Dalla produzione, che genera emissioni di PFAS, all'utilizzo, durante il quale si degradano rilasciando composti tossici, fino allo smaltimento”, spiega Bocchini. I polimeri microporosi offrono un'alternativa sostenibile.
Supercapacitori: l'energia dello sprint
I supercapacitori rappresentano una tecnologia di accumulo energetico fondamentalmente diversa dalle batterie, sia nel principio di funzionamento sia nelle caratteristiche prestazionali. Mentre le batterie immagazzinano energia attraverso reazioni chimiche reversibili che modificano la struttura dei materiali degli elettrodi, i supercapacitori la accumulano fisicamente, separando cariche elettriche su superfici molto estese senza modifiche chimiche sostanziali.
Questo meccanismo di accumulo fisico permette loro di caricarsi e scaricarsi molto più velocemente delle batterie. “I supercapacitori non sono sostitutivi delle batterie attualmente utilizzate, ma sono complementari”, spiega Andrea Lamberti, Professore ordinario del Politecnico di Torino. “Sono in grado di accumulare un alto grado di potenza in poco tempo e quindi di compensare quello che è il difetto principale della batteria: non avere lo sprint.”
La differenza chiave sta nei tempi caratteristici e nella densità di potenza. Una batteria può impiegare da decine di minuti a diverse ore per caricarsi completamente e fornisce energia in modo costante nel tempo, con densità energetiche elevate. Un supercapacitore si carica in pochi secondi e può rilasciare tutta la sua energia in un lampo, fornendo picchi di potenza elevatissimi. La densità energetica è inferiore rispetto alle batterie, ma la densità di potenza – la velocità con cui l'energia può essere erogata – è enormemente superiore.
Nel settore automotive, questa caratteristica può essere sfruttata in modo intelligente attraverso sistemi ibridi composti da batterie e supercapacitori. Nel momento in cui l'auto non sta sfruttando tutta la batteria, il supercapacitore si ricarica, e al momento dell'accelerata dà quello sprint di intensità necessario. Questa sinergia ottimizza sia i costi sia le prestazioni del sistema complessivo. La sapienza progettuale sta proprio nel progettare soluzioni complementari di questo genere.
L'eccellenza della ricerca torinese trova conferma in alcuni altri progetti che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali. Il progetto CO2CAP, sviluppato da Andrea Lamberti in collaborazione con Bocchini e altri ricercatori del Politecnico, ha ricevuto un prestigioso finanziamento dall'European Research Council. Questo progetto ha dimostrato per la prima volta la possibilità di raccogliere energia direttamente dalle emissioni di CO2 utilizzando un condensatore elettrochimico basato su liquidi ionici. Il meccanismo è completamente nuovo e apre la strada a una nuova generazione di dispositivi elettrochimici che potrebbero operare direttamente sui flussi di emissione industriali, trasformando un problema ambientale – le emissioni di CO2 – in un'opportunità per la produzione di energia.
a) Schema della cella elettrochimica. La tecnologia CO2CAP funziona con una cella elettrochimica simile a una batteria. Al suo interno, due elettrodi sono immersi in uno speciale Liquido Ionico (IL), che è il cuore del sistema: cattura la CO2 e allo stesso tempo agisce da conduttore elettrico. b) Meccanismo di assorbimento della CO2. Quando la CO2 entra in contatto con il Liquido Ionico, innesca una reazione chimica che cambia la carica del liquido stesso. Questa variazione chimica viene immediatamente convertita in un guadagno di tensione elettrica sull'elettrodo, trasformando così l'energia rilasciata dall'assorbimento della CO2 in elettricità utile. (Molino 2023).
a) Schema della cella elettrochimica. La tecnologia CO2CAP funziona con una cella elettrochimica simile a una batteria. Al suo interno, due elettrodi sono immersi in uno speciale Liquido Ionico (IL), che è il cuore del sistema: cattura la CO2 e allo stesso tempo agisce da conduttore elettrico. b) Meccanismo di assorbimento della CO2. Quando la CO2 entra in contatto con il Liquido Ionico, innesca una reazione chimica che cambia la carica del liquido stesso. Questa variazione chimica viene immediatamente convertita in un guadagno di tensione elettrica sull'elettrodo, trasformando così l'energia rilasciata dall'assorbimento della CO2 in elettricità utile. (Molino 2023).
Tutti insieme per vincere le sfide dell’energia
Rimangono altre sfide importanti da affrontare nonostante i progressi significativi. La prima riguarda la sostenibilità della catena del valore delle batterie. “Il problema principale in Europa è la mancanza di industrie chimiche per processare i materiali riciclati dalle batterie”, sottolinea Bodoardo. Sviluppare una capacità europea di raffinazione e riciclo dei materiali delle batterie è fondamentale non solo per ragioni ambientali, ma anche per sicurezza degli approvvigionamenti e autonomia strategica.
La seconda sfida riguarda la formazione di personale qualificato. Le 800.000 persone necessarie per lavorare nell'ecosistema delle batterie in Europa non si formano dall'oggi al domani. Servono percorsi educativi dedicati che combinino competenze in chimica, scienza dei materiali, ingegneria elettrica e meccanica, laboratori attrezzati con tecnologie aggiornate, e collaborazioni strutturate tra università e industria per garantire che le competenze sviluppate rispondano alle esigenze reali del mercato del lavoro.
Un tema ricorrente emerso dalle interviste è l'importanza cruciale della collaborazione interdisciplinare. “Non esiste più il Leonardo da Vinci che padroneggia tutti i campi”, osserva Santarelli. “Servono persone esperte in matematica, fisica, chimica, ingegneria e scienze economico/sociali che lavorano insieme per affrontare sfide che nessuno potrebbe risolvere da solo”. L’unione fa la forza, e l’energia.
LAB Steps, PoliTO
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Laboratorio enertronica, PoliTO
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Laboratorio enertronica, PoliTO
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